La gestione separata è uno degli strumenti che ha avuto maggior successo in termini di raccolta negli anni successivi al 2008-2009. Tra gli elementi che hanno da sempre attirato il risparmiatore possiamo citare la stabilità dei rendimenti, l’eliminazione della volatilità del valore dell’investimento e probabilmente il contenimento dei rischi rappresentati dai mercati finanziari.
Nonostante l’apparente percorso privo di incertezze questo strumento è stato oggetto di varie riflessioni normative e contrattuali in maniera per certi versi sorprendente, specie se valutato come uno strumento privo di rischio tout-court.
Come dovremmo ormai aver imparato non esistono strumenti finanziari privi di rischio e non possono esserlo quindi neanche le gestioni separate, altrimenti non avremmo assistito in questi anni all’introduzione di Solvency II e non sarebbero stati richiesti alle compagnie nuovi e maggiori capitali necessari per poterne offrire la sottoscrizione. Anzi, il fatto che oggi mediamente il risparmiatore per poter sottoscrivere una gestione separata debba utilizzare un prodotto multiramo dovrebbe far riflettere sulle cause che ne hanno richiesto l’implementazione.
La prima ragione è stata evidentemente quella di porre un freno alla raccolta di capitale in gestione separata per non dover allocare un eccessivo capitale di scorta da parte delle compagnie. La seconda motivazione è che si è voluto sottolineare all’investitore che una parte anche consistente del rischio dei mercati finanziari va condiviso con la compagnia nel senso che una parte dell’investimento sarà necessariamente valutata mark to market con tutte le conseguenze in termini di valorizzazione e volatilità del portafoglio. In questo senso la diversa tipologia di offerta rispecchia pienamente quella che dovrebbe essere la componente assicurativa di un contratto unit-linked, equiparato ad altri rami in cui quindi l’assicurato scarica sulla compagnia una parte, anche consistente, del rischio ma non la sua totalità, rischio rappresentato dai movimenti avversi dei mercati finanziari. Una terza ragione potrebbe consistere nello spingere gli addetti ai lavori verso una riqualificazione professionale che comporti l’acquisizione di competenze anche legate ai mercati finanziari tradizionali ed emancipi tutto il settore verso una competizione più allargata nei confronti del canale bancario.
Un passaggio importante in cui da un lato le banche diventano imprese d’assicurazione, mentre dall’altro le imprese di assicurazione, tramite le polizze multiramo, diventano a tutti gli effetti gestori del risparmio a tutto tondo.
È palese, del resto, che dopo una decina d’anni sostanzialmente positivi per tutte le asset class, in apparenza sembrerebbe un passaggio molto semplice, sia per la componente mark to market che per la componente gestione separata. Esistono però delle zone d’ombra? È ipotizzabile che la spinta normativa, ovvero la richiesta di approntare capitali ben superiori rispetto al passato per predisporre e collocare le proprie gestioni separate, sia avvenuta perché la certezza e la costanza del rendimento non sono più una garanzia priva di costi, anche significativi? E quali possono essere gli scenari più pericolosi e più avversi in questo momento storico?
Sono tutte domande alle quali non è facile dare una risposta oggettiva se non partendo dall’assunto che non è possibile contenere e controllare tutti i rischi possibili a cui oggi si va incontro sui mercati finanziari e che qualsiasi iniziativa venga proposta ha lo scopo di fronteggiarne il numero maggiore possibile.
Il primo grande rischio è il rischio Paese. Sappiamo infatti che una fetta preponderante degli investimenti di una gestione separata è legata ai titoli di stato italiani. Nonostante quanto la valorizzazione dei portafogli avvenga a costo storico, cioè in base al solo prezzo di acquisto, e i rendimenti riconosciuti in base alle cedole incassate e alle compravendite realizzate, se i mercati finanziari prezzassero un rischio default del nostro Paese, questo sarebbe un bel problema. Un problema che potrebbe divenire insanabile qualora ci fosse quello che viene definito un “haircut” cioè un taglio del debito, pari ad esempio al 30%. In quel caso, e sempre a titolo di esempio, il rimborso dei titoli non avverrebbe più a 100 ma a 70. Siamo tuttavia di fronte a un rischio probabilmente teorico, in quanto la ricchezza privata del Paese Italia è largamente superiore al debito pubblico contratto e basterebbero poche impopolari manovre fiscali per scongiurarlo.
Vi è un altro tipo di rischio, già verificatosi in passato, e che è stato ben gestito dalle compagnie. Si tratta del rischio legato all’eventualità che, in determinati momenti e contesti, i rimborsi richiesti superino in maniera importante le nuove sottoscrizioni magari in fasi di caduta dei prezzi dei nostri titoli di stato. È successo ad esempio nel 2011, quando i rendimenti dei Btp arrivarono a superare il 7% e lo spread con i Bund tedeschi superò i 500 punti. In quei casi è infatti necessario liquidare parti consistenti di portafoglio in regimi avversi di prezzo, facendo quindi emergere perdite complessive tali da compromettere la tenuta sia del concetto di costanza di rendimento che di rendimento positivo. Nel passato si è concesso alle compagnie di spalmare negli esercizi successivi le minusvalenze realizzate in questi rari momenti di mercato, così da non compromettere la fiducia dei sottoscrittori. Questa è una tipologia di rischio a cui possono essere maggiormente sottoposte le compagnie che hanno istituito le proprie gestioni separate in epoche più recenti, in condizioni di tassi d’interesse più contenute. Vi è però da dire che proprio nelle condizioni più avverse si concretizzano le grandi occasioni per i gestori delle gestioni separate, ovvero quando crollano i prezzi dei titoli di stato, quando la sfiducia finanziaria per il nostro Paese è massima. I gestori di gestioni separate, essendo gestori long only e compratori netti, hanno in quelle circostanze l’opportunità di migliorare e di incrementare il rendimento medio a scadenza del proprio portafoglio, sempre che poi non si verifichi realmente il default.
Arriviamo poi al rischio tasso, che si può presentare in entrambe le direzioni. Quello più marcato evidentemente è stato quello corso dalle gestioni separate in questi anni di grandi discese dei tassi d’interesse. Questo fenomeno, legato alla convergenza dei tassi europei, ha decretato la possibilità per molto tempo di accumulare titoli con cedole molto più elevate di quelle che poi sarebbe stato possibile ottenere in futuro sul mercato: ciò ha permesso di ottenere risultati molto brillanti, liquidando minime porzioni di portafoglio grazie alle cospicue plusvalenze ottenute. Il nemico più grande è e sarà sempre di più lo scorrere del tempo da un lato e i rendimenti negativi dall’altro. Infatti anche in relazione al nostro debito per lungo tempo abbiamo assistito a condizioni di stabilità dei tassi su livelli molto contenuti, e addirittura negativi per le scadenze più brevi, in base alla capacità dei vari governi di assecondare le politiche richieste in ambito europeo. Si è arrivati quindi a remunerare tassi sulle gestioni separate più elevati di quelli reperibili sul mercato per lo stesso livello di rischio obbligazionario e a offrirlo ai nuovi sottoscrittori, trasferendo quindi parte del valore delle cedole dei vecchi sottoscrittori ai nuovi. Le condizioni attuali hanno portato alcune compagnie a chiudere le proprie vecchie gestioni separate proprio per tutelare gli interessi dei sottoscrittori in essere, dando vita ai nuovi prodotti che non garantiscono più il capitale al 100%, seppur in termini percentuali importanti. In questo senso la normativa ha fornito un valido supporto attraverso il provvedimento IVASS 68 del febbraio 2018. Le modifiche introdotte consentono alle imprese di prevedere, per i nuovi contratti, modalità di determinazione del tasso medio di rendimento che tengano conto dell’accantonamento delle plusvalenze nette realizzate in un apposito “fondo utili”. Tale fondo ha natura di riserva matematica e concorre interamente alla determinazione del tasso medio di rendimento in un tempo massimo di otto anni dalla data in cui le plusvalenze nette sono state accantonate.
Anche lo scenario opposto, quello tanto atteso di rialzo dei tassi qualora ripartisse l’economia reale e con essa l’inflazione, comporterebbe nel breve delle difficoltà, specie sui prodotti di più vecchia data, favorendo invece quelli di nuova istituzione. I processi di adeguamento dei rendimenti infatti si aggiusterebbero al rialzo con gradualità e non immediatamente. Oggigiorno, questo scenario che caldeggiava la ripresa dell’inflazione è passato decisamente in secondo piano, non solo nel nostro Paese ma a livello internazionale. Nelle ultime settimane abbiamo infatti assistito ad un deciso calo dei tassi d’interesse per le emissioni governative di quasi tutti i paesi europei.
Sono molti dunque gli aspetti a valutare quando si sceglie se investire parte del proprio denaro in una gestione separata: la considerazione più importante però risiede nel fatto che, così come recita un famoso adagio nel mondo della finanza, anche in questo prodotto ormai non esistono “pasti gratis”. La protezione e la garanzia del capitale, anche al netto dei costi, prevedono un costo da remunerare: l’importante è che questo costo sia commisurato al servizio offerto, per evitare di annullare i benefici offerti da un prodotto garantito, o in larga misura garantito in un contesto finanziario in cui di certezze non se ne possono più offrire.