Articolo di Vittorio Pelligra, originariamente pubblicato su Ilsole24ore.com.
Quanti anni aveva il Mahatma Gandhi quando è morto? Un salto su Wikipedia o una rapida domanda ad Alexa e la risposta arriva immediata. Ma immaginate di non aver accesso a queste scorciatoie e di dover produrre la vostra stima senza nessun aiutino. Immaginate anche che la domanda possa venir posta più specificatamente in due versioni differenti. In un caso viene chiesto se Gandhi è morto prima o dopo aver raggiunto i 140 anni, nel secondo caso, invece, viene chiesto se la morte è sopraggiunta prima o dopo aver compiuto i 9 anni.
La risposta è semplicissima in entrambi i casi e, infatti, il 100% dei rispondenti risponde correttamente, “prima di 140 anni” e “dopo i 9 anni”. Quando poi, però, andiamo a chiedere, esattamente, quanti anni aveva il Mahatma quando è morto, allora scopriamo un fatto interessante: quelli a cui si era posta l’assurda soglia dei 140 anni, stimano, in media, un’età effettiva della morte, maggiore di quella stimata da coloro cui la domanda era stata posta con l’altrettanto assurda soglia dei 9 anni: 67 anni contro 50.
L’effetto «ancoraggio» sulle decisioni
Questa differenza è sistematica e statisticamente significativa; non è, cioè, dovuta al caso. Questo bizzarro comportamento è stato evidenziato da Thomas Mussweiler e Fritz Strack (“Explaining the Enigmatic Anchoring Effect: Mechanisms of Selective Accessibility”, Journal of Personality and Social Psychology 73(3), pp. 437-446, 1997), due psicologi tedeschi che, sulla scorta degli studi pionieristici di Amos Tversky e Daniel Kahneman, hanno approfondito il ruolo del cosiddetto “effetto ancoraggio” sulla dinamica delle nostre decisioni.
In soldoni si tratta del fatto che, quando siamo chiamati ad elaborare una stima su un valore, in una situazione di assenza di dati sicuri o di grande incertezza, cerchiamo, inconsciamente, di sfruttare tutte le informazioni che potrebbero aiutarci a elaborare una stima corretta. Molte di queste informazioni, però, sono del tutto irrilevanti, ma, nonostante questo, si fissano nella nostra mente come delle “ancore” e, come le ancore, ci tengono fermi o ci impediscono di muoverci troppo. Così la soglia dei 9 anni, assurdamente bassa, ci fissa e ci porta a dichiarare un valore sottostimato. Simmetricamente, la soglia dei 140 anni, anche questa palesemente sbagliata, inconsciamente diventa la nostra ancora e ci porta ad un aggiustamento insufficiente della stima che risulta, per questo, eccessiva. L’ancoraggio è quel fenomeno, dunque, che ci porta a sbagliare perché produce una sorta di inerzia decisionale che ci rende incapaci di adattarci alle rapide modificazioni dell’ambiente che ci circonda.
Il caso Polaroid
Per la mia prima comunione ricevetti un regalo bellissimo: una macchina fotografica Polaroid che faceva foto istantanee. Aveva un design super, un bulbo flash sostituibile a quattro scatti e una cartuccia di dieci pellicole a sviluppo istantaneo. Mi ricordo esattamente dove la comprammo e le prime foto che feci. Il ricordo diventa più sfumato rispetto a quando smisi di usarla perché era diventato difficile e costoso acquistare le cartucce di ricambio. La Polaroid non navigava in buone acque. Eppure, ancora nel 1997 era un’azienda leader a livello mondiale nel settore della fotografia, in alcuni segmenti del mercato era un vero e proprio monopolista. Nell’anno precedente aveva dichiarato profitti pari a 2.3 miliardi di dollari. Non più di quattro anni dopo la Polaroid portò i libri contabili in tribunale dichiarando bancarotta. Una triste storia, l’ennesimo esempio di “innovazione distruttiva”? Un gigante che continua a fondare il suo business su una tecnologia obsoleta, fino quando lo tsunami della fotografia digitale non lo travolge? No. Niente di tutto questo. La Polaroid non era Blockbuster. La Polaroid e il suo Ceo del tempo, Gary DiCamillo, erano ben coscienti della rivoluzione tecnologica in atto. Sapevano che il digitale avrebbe presto soppiantato il formato analogico.
Per questo già nel 1996 il guadagno del settore digitale dalla compagnia arrivava a 100 milioni di dollari. Nelle priorità del Ceo lo sviluppo del settore digitale stava al primo posto. La Polaroid non è fallita perché non ha saputo prevedere le modificazioni del mercato nel quale operava.
È fallita perché nonostante avesse previsto il mutamento, non vi si è adattata abbastanza velocemente. Perché alle parole del Ceo non sono seguiti i fatti del resto dell’organizzazione. Il gigante si è mosso troppo lentamente rispetto alla velocità del progresso incombente. Una delle ragioni che spiega questa inerzia patologica, questo enorme peccato di omissione, sta proprio nell’ancoraggio.
Tutti noi, individualmente, ne siamo vittime; ma ci sono, poi, organizzazioni che, per le loro dinamiche interne, ne moltiplicano gli effetti rendendoli devastanti. Il caso della Polaroid ci dice esattamente questo. Ma non è un caso isolato.
Il criterio della «spesa storica» per i budget
In un famoso rapporto McKinsey, pubblicato nel 2012, (Hall, S., Lovallo, D., Musters, M., “How to put your money where your strategy is”, McKinsey Quarterly, March 1) leggiamo che, su 1600 grandi imprese che operano in mercati differenti, il principale fattore che determina l’allocazione delle risorse ad ogni singola business unit è quanto la stessa unità aveva ricevuto l’anno precedente. In altre parole, queste grandi multinazionali stabiliscono i loro budget preventivi usando il famigerato criterio, tanto vituperato nella nostra PA, della “spesa storica”.
Il coefficiente di correlazione tra quanto avevamo previsto l’anno scorso e quanto riceverai l’anno prossimo è pari a 0.92. Per un terzo di tutte le imprese considerate, addirittura 0.99. Praticamente la stessa cifra.
A cosa servono, allora, i piani strategici, le analisi, gli scenari? Servono a ipotizzare cambiamenti che, poi, il potere dell’ancoraggio neutralizza brutalmente. Naturalmente, nel frattempo, il mondo là fuori cambia, le circostanze mutano, ci sono shock di ogni genere e la velocità di tale cambiamento è sempre maggiore. Eppure, davanti a tutto questo dinamismo, le grandi imprese reagiscono con inerzia.
Si spiega così perché molti giganti cadono e molti altri perdono il passo
Sempre gli autori dello studio della McKinsey trovano che coloro che sono più disponibili a cambiare, coloro che riallocano più facilmente le loro risorse, lungo un periodo di 15 anni, ottengono il 30% in più dei dividendi per gli azionisti, rispetto agli altri, agli “immobili” e agli “inerti”. Naturalmente, con il senno di poi, le cose sono molto semplici. È anche questo l’ennesimo bias, però. Si chiama “hindsight bias” e ne abbiamo parlato altre volte. È facile capire come, dove e quando si è sbagliato dopo che i risultati di tali decisioni si sono già manifestati.
La vera abilità di un buon manager
Altra cosa è capire, prima, quali sono le decisioni migliori da prendere. Qui sta la vera abilità di un buon manager, così come quella di un buon politico. In questi tempi, in particolare, nei quali siamo chiamati a decidere come allocare le ingenti risorse che ci arrivano dall’Europa in progetti, possibilmente, ad alto rendimento sociale, può essere importante tener conto dell’effetto ancoraggio. Il passato è solo uno dei criteri da tenere in considerazione; con la pandemia lo scenario nazionale ed internazionale è mutato drasticamente. Sarebbe utile svincolarsi da logiche vecchie e stantie che si sono rivelate fallimentari per troppo tempo; levarla, quell’ancora, e riprendere la navigazione coraggiosa e spedita.