Poco più di trent’anni fa, il primo ETF quotato al mondo fece da apripista ad un nuovo concetto di investimento e ad una rivoluzionaria strategia operativa, che permetteva di accedere non a singoli titoli ma a un intero paniere di investimento comprandolo direttamente sul mercato, senza dover acquistare un fondo di investimento. Oggi forse parlare di ETF sembra la cosa più banale del mondo, ma in realtà questi strumenti hanno radicalmente mutato l’approccio al modo di investire.
Nel gennaio del 1993 l’ETF SPDR S&P Trust, realizzato da State Street, debuttò in solitaria all’AMEX (American Stock Exchange) di New York con un patrimonio iniziale pari a circa 6,5 milioni di dollari asset. Oggi, tre decenni dopo, questo ETF resta uno dei leader di mercato per capitalizzazione e i suoi asset superano abbondantemente i 350 miliardi di dollari, mentre il controvalore dell’intero settore a livello mondiale si aggira intorno ai 10.000 miliardi di dollari, una cifra pari a circa cinque volte il Pil italiano.
Ben diciassette anni prima, il visionario John C. Bogle, fondatore di Vanguard, aveva lanciato il suo fondo in replica allo SP500, uno strumento di investimento che permetteva anche ai piccoli risparmiatori di accedere all’intero universo dell’indice Standard and Poor’s grazie a un taglio accessibile, costi di gestione molto contenuti e nessuna strategia o scenario previsivo, ma un puro e semplice duplicato del più importante indice di borsa al mondo. Prima di lui solo i grandi fondi pensione e investitori istituzionali potevano permettersi investimenti a replica dell’indice, dato l’enorme controvalore dell’investimento richiesto.
Il suo First Index Investment Trust, successivamente ridenominato Vanguard SP500, fu accolto come “una follia” e Bogle stesso venne deriso dai suoi colleghi e bollato come “non-americano”, un anti-patriota insomma, contrario ai princìpi base del mondo dell’investimento: quale risparmiatore o piccolo investitore si sarebbe dovuto accontentare di un mediocre rendimento del proprio fondo, pari a quello dell’indice di mercato, senza tentare di batterlo?
Se siamo qui oggi a scriverne evidentemente la storia ha già emesso le proprie sentenze soprattutto attraverso i fatti e i numeri da capogiro sopra accennati.
Oggi vi sono ETF d’ogni tipo, azionari, bilanciati, obbligazionari, settoriali, geografici, large caps, small caps. Dopo averli inizialmente osteggiati, le case di investimento e le grandi banche internazionali hanno fatto a gara per lanciare i propri ETF e oggi è difficile avere contezza della sterminata offerta in circolazione e in continua produzione ed evoluzione.
Da noi, dopo un timido iniziale debutto di 3 ETF il 30 settembre 2002, oggi su Borsa Italiana sono quotati circa 1.500 ETF, un successo tale da aver indotto Borsa Italiana a creare ad hoc il mercato ETFplus, un contesto ideale per la negoziazione di ETF, ETF strutturati, ETF a gestione attiva ed ETC/ETN, con un patrimonio totale investito superiore a 100 miliardi di Euro.
Quale strumento di investimento poco costoso, diversificato, accessibile e di facile comprensione probabilmente ad oggi gli ETF non temono rivali. Ciò però non implica che i fondi di investimento, piuttosto che i singoli titoli azionari o obbligazionari non possano risultare appetibili agli occhi di un investitore che oltre alla diversificazione cerca una maggiore personalizzazione.
Senza entrare nel merito dei singoli titoli azionari, obbligazionari o delle singole commodities (oro, petrolio e via dicendo), quale può essere oggi un valido contributo offerto dai fondi di investimento rispetto ai più economici ETF, alla luce del fatto che spesso nel lungo periodo i fondi gestiti attivamente non battono il loro mercato di riferimento?
Secondo uno studio portato avanti dal team di John C. Bogle e condotto su 355 fondi azionari americani tra il 1970 e il 2016, solo 10 di questi sono riusciti a realizzare un ritorno medio annuo dell’investimento superiore a quello conseguito dal loro benchmark, l’indice SP500. E solo altri 35 hanno fatto come il mercato. Dunque perché scegliere un fondo attivo?
Le ragioni possono essere diverse e tutte comprensibili. La prima risiede nel fatto che in realtà non è semplice ragionare di investimento su orizzonti temporali lunghi. Spesso infatti il risparmiatore ha una visione del proprio orizzonte di investimento breve, pari a 5 anni, a volte 10, raramente più lunga. Non è semplice far passare il messaggio che in realtà investire è un processo continuativo e costante e lo diventerà sempre di più con l’inesorabile incremento dell’aspettativa media di vita.
Se dunque il risparmiatore ha un orizzonte temporale più limitato può volersi affidare a fondi e gestori attivi che non puntano a battere un indice, quando piuttosto a riuscire a realizzare un rendimento positivo, in qualunque situazione di mercato. Si può dunque scegliere di inserire all’interno dei propri portafogli fondi flessibili dando carta bianca al team di gestione in merito alla scelta del peso da attribuire alle diverse asset class a seconda degli scenari di mercato, soprattutto in fasi di incertezza quali quelle che stiamo vivendo in questi ultimi anni che, tra la pandemia e la guerra in Ucraina hanno pesantemente influito sui mercati, provocando cali anche accentuati che, si presume, un gestore esperto possa riuscire quantomeno ad attenuare.
Oppure si possono fare scelte tematiche, che non sono un semplice ESG né sono rispecchiate in singoli settori ma riguardano trasversalmente aziende di settori diversi. Su tematiche quali la longevity o la trasformazione digitale, analisti e uffici studi delle case di investimento hanno le conoscenze e l’esperienza per scegliere attivamente su quali aziende puntare e quali altre invece sottopesare nei propri comparti. Inoltre, soprattutto per quanto riguarda il mondo obbligazionario, alcuni fondi sono in grado di sfruttare sistematicamente differenze di rendimento tra singoli titoli corporate facendo incetta di titoli e scadenze temporaneamente sottovalutati dal mercato, per portare a casa rendimenti apprezzabili.
In conclusione potremmo dire dunque che l’introduzione degli Exchange Trade Funds ha dato un contribuito fondamentale al settore degli investimenti, in particolare quelli al dettaglio e soprattutto quelli di lungo periodo. Il loro costo contenuto e il fatto che siano quotati su mercati regolamentati, proprio come un’azione, rappresentano certamente i due più evidenti vantaggi. È necessario, però, ricordare comunque che così come tutti gli altri strumenti di investimento comportano un’attenta analisi delle proprie esigenze e del proprio profilo di rischio essendo esposti come tutti alle oscillazioni quotidiane nonché all’evoluzione delle variabili economiche e delle aspettative degli scenari futuri.
1. Fonte: Vanguard