Italiani più conservatori, statunitensi più propensi al rischio: sono luoghi comuni o c’è un fondamento di verità? Cercare di costruire l’identikit medio dell’investitore che vive in un determinato Paese porta necessariamente a fare delle generalizzazioni, che non colgono peculiarità ed eccezioni. Tuttavia, l’idea che ci siano dei tratti comuni tra gli investitori di alcune nazionalità e differenze tra continenti sembra avere un suo fondamento.
Le scelte di investimento sono determinate da moltissimi fattori, per lo più individuali, legati al profilo di rischio dell’investitore, alle sue aspettative di rendimento, alle finalità dell’investimento stesso, all’orizzonte temporale, così come alla sua storia finanziaria, all’alfabetizzazione, al patrimonio disponibile. D’altra parte, però, il contesto in cui il cittadino vive ha un impatto sui comportamenti anche in ambito finanziario. Esiste, allora, una sorta di “fattore Paese”, un fil rouge che accomuna e orienta l’approccio di investimento tra connazionali?
Profilo di rischio, come cambia tra Paesi diversi
Analizzando le modalità con cui gli investitori costruiscono i propri portafogli nei diversi mercati internazionali, la ricerca “Global Investor Portfolio Study” di Morningstar1 ha evidenziato i tratti comuni presenti in 14 Paesi (Australia, Canada, Cina, Francia, Germania, Hong Kong, India, Italia, Giappone, Nuova Zelanda, Singapore, Svizzera, Regno Unito, Stati Uniti).
L’aspetto più evidente riguarda l’assunzione del rischio, che è parte costitutiva dell’investimento stesso: se è vero che il profilo di rischio è fortemente legato alla psicologia individuale e alla cultura d’investimento, i ricercatori hanno evidenziato che alcune variabili legate al contesto del Paese hanno la loro rilevanza.
Nello studio di Morningstar emerge, ad esempio, che c’è una maggiore disponibilità ad assumersi rischi nei mercati in cui si inizia ad investire sin da giovani, ad esempio attraverso regimi pensionistici obbligatori a contribuzione definita. In questo modo, gli investitori acquisiscono rapidamente familiarità con la volatilità dei mercati finanziari e tendono a costruire portafogli con una maggiore esposizione alla crescita, scegliendo ad esempio strumenti come le azioni. Anche a livello di opinione pubblica, c’è una maggiore condivisione e consapevolezza del fatto che l’investimento in attività rischiose è necessario per costruire il proprio patrimonio.
Al contrario, nei mercati con un alto livello di sicurezza sociale – caratterizzati da servizi pubblici con sistemi pensionistici basati sulla responsabilità condivisa, che finanziano con le tasse l’universalità dei sistemi sanitari e l’istruzione – le persone sono meno incentivate a risparmiare il loro reddito corrente e sopportare la volatilità del mercato per raggiungere obiettivi di vita, che sono già tendenzialmente garantiti. Inoltre, proprio la rete di sicurezza sociale ha un costo che si traduce in una maggiore tassazione, che erode il reddito disponibile da destinare all’investimento privato.
Emerge così che i portafogli più propensi al rischio sono quelli dei mercati in cui è il risparmio individuale a coprire le esigenze pensionistiche e altri importanti obiettivi di vita, perché c’è la consapevolezza che assumersi un livello di rischio sufficiente e appropriato è essenziale per far crescere il patrimonio nel tempo. Negli Stati Uniti, in particolare, abbiamo il peso maggiore di equity (61%) ed il minore di liquidità e depositi (12%): tra quelli analizzati, si tratta del Paese con gli investitori più propensi al rischio.
Rispetto al mondo anglofono (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda), l’Europa continentale presenta caratteristiche diverse in termini di propensione al rischio, e l’Italia risulta il Paese più conservatore. I mercati europei, infatti, tendono a non lasciare all’individuo l’onere della crescita del patrimonio pensionistico. Con una sicurezza sociale garantita e relativamente elevata ed istituzioni educative finanziate dallo stato, gli investitori dell’Europa continentale – seppur con diverse sfumature dettate dalla maggiore o minore consapevolezza della fragilità del welfare pubblico – considerano l’investimento più come qualcosa di accessorio, un paracadute per le emergenze o uno strumento per incrementare il proprio benessere, piuttosto che come uno strumento necessario a costruire patrimoni nel medio e lungo periodo.
Prospettive economiche, andamento demografico, opinione pubblica: cosa determina il “mood” di un Paese
Il contesto in cui si vive ha dunque un evidente impatto sul processo decisionale in ambito finanziario. Ma quali sono i fattori decisivi che costituiscono il “mood” di un Paese? Si possono individuare almeno tre grandi variabili in relazione tra loro.
La prima riguarda le prospettive economiche del sistema Paese. La volontà di investire dipende, infatti, dalla disponibilità attuale e attesa di redditi dell’investitore, che sono direttamente influenzate dalle dinamiche economiche di un Paese. Prospettive positive, sostenute da un buon andamento della produzione e della domanda (interna ed esterna) e dagli investimenti, generano ottimismo sull’andamento del mercato del lavoro e sulla possibilità di mantenere il tenore di vita. Al contrario, dinamiche macro-economiche negative portano timori per l’andamento del mercato occupazionale e per la possibilità di un inasprimento delle politiche fiscali: in questo scenario, gli investimenti generalmente vengono messi in stand-by.
Altra grande variabile che contribuisce a definire il “mood” di un Paese è quella demografica. Un Paese giovane è tendenzialmente più propenso all’investimento ed al rischio, in quanto l’orizzonte temporale più ampio consente di fare una pianificazione di lungo periodo, contenendo i rischi della volatilità dei mercati finanziari. Al contrario, chi è più vicino all’età pensionabile tende a godere dei frutti del lavoro e degli investimenti di una vita, scegliendo un approccio prudenziale. La variabile anagrafica va però letta insieme all’andamento economico del Paese, perché dove i giovani entrano tardivamente nel mercato del lavoro, anche le scelte d’investimento vengono ritardate rispetto ai contesti in cui iniziano prima ad avere un’occupazione.
C’è, infine, l’opinione pubblica, in cui convivono tradizione e attualità. La prima dipende dalla storia di un Paese e dalla sua attitudine al welfare pubblico: dove c’è una maggiore presenza dello Stato nella pianificazione di previdenza, spesa pubblica, istruzione, c’è storicamente minore propensione ad investire e, in genere, anche minore alfabetizzazione finanziaria. Su questo substrato si innesta l’attualità, che “viaggia” sia tramite l’informazione tradizionale – da cui arrivano, ad esempio, i dati e le analisi economiche che determinano la fiducia nell’andamento del Paese – sia tramite nuovi canali come i social, in cui vengono condivise opinioni ed esperienze su prodotti, compagnie, consulenze: anche queste possono influenzare le scelte d’investimento in direzioni diverse dalla tradizione.
Per il consulente si tratta di una duplice sfida: se da una parte la richiesta di personalizzazione degli investimenti induce a cercare soluzioni su misura, dall’altra è fondamentale considerare anche il contesto in cui si muove l’investitore, per meglio comprendere il suo profilo, non solo in base a fattori individuali, età anagrafica, aspettative, ma anche alla cultura che lo contraddistingue.
1. “Global Investor Portfolio Study 2022 – Demystifying investor portfolios in a diverse world”, 24 ottobre 2022, Morningstar