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27
Lug 2018

La guerra dei dazi

Già alla fine dello scorso giugno la tensione di una possibile guerra commerciale tra Usa e Cina ha iniziato ad intaccare la narrativa bonaria che circolava da tempo sui mercati finanziari e che deponeva a favore di una sostanziale tattica di confronto tra i due colossi, che si immaginava risolta nell’arco di poche settimane.

L’idea che la voce grossa di Trump e le pronte risposte cinesi fossero parte di un’ampia fase di negoziazione in atto si sta in realtà affievolendo, in favore del crescente timore che si possa andare incontro a un futuro del commercio mondiale meno aperto e libero, con possibili aumenti di dazi e tariffe su numerose classi di prodotti, anche per prolungati periodi di tempo.
Dopo l’entrata in vigore dei dazi su pannelli solari, acciaio, alluminio, alcuni elettrodomestici e molti altri beni durevoli di importazione cinese, la tensione è ulteriormente salita in seguito alla possibilità – paventata da Trump – di ricorrere all’applicazione di tariffe elevate anche sulle autovetture di importazione europea. Quest’ultimo argomento è stato oggetto di discussione nell’incontro, avvenuto pochi giorni fa, tra lo stesso presidente americano e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.

Come se non bastasse, Trump ha ulteriormente alzato la posta criticando apertamente la politica del Regno Unito. Il presidente americano ha infatti giudicato troppo morbida la strategia di uscita dall’Unione Europea di Theresa May e ha minacciato di far saltare le ipotesi di accordo bilaterale commerciale US-UK, già da mesi in fase di delineamento.

Ciò che dunque sembra mutato nelle ultime settimane è il sentiment degli investitori nei confronti di un cosiddetto tail-risk, ovvero un rischio inizialmente giudicato sì insidioso, ma alquanto improbabile, che invece si sta trasformando rapidamente in una minaccia concreta.
Gli annunci roboanti sono diventati fatti concreti, per cui al momento sono già entrati in vigore dazi su prodotti di importazione pari a circa 50 miliardi di dollari (di cui 34 già effettivi e 16 imminenti), mentre sarebbero allo studio ulteriori misure che potrebbero arrivare a colpire fino a 200 miliardi di dollari di importazioni, se non di più, già alla fine dell’estate.

Mentre da più parti si sono levati commenti preoccupati in merito ad una possibile escalation delle ritorsioni protezionistiche, lo stesso governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha consigliato cautela in merito all’adozione di misure che, se estese e prolungate, potrebbero portare ad una riduzione delle future stime di crescita domestica e internazionale.
L’incertezza sull’evoluzione futura infatti blocca spesso i piani di investimento delle aziende che, in attesa di schiarite sul fronte delle politica economica e dello scenario internazionale, preferiscono mettere in pausa i propri progetti di spesa futuri. Nonostante l’ammontare dei beni americani importati da Pechino sia molto inferiore rispetto all’ammontare di quelli esportati (rispettivamente pari a poco meno di 200 miliardi di dollari, e poco più di 500 miliardi di dollari) le misure che il colosso cinese potrebbe adottare spaziano da tattiche dilatorie a livello burocratico, a forme di quarantena delle merci in entrata fino all’ostacolare la vendita dei prodotti delle filiali di aziende Usa già operanti in territorio cinese.

Come si evince dunque, l’evoluzione dei rapporti commerciali di Stati Uniti e Cina, ma anche dell’Europa, del Regno Unito, del Giappone e di altre aree del mondo, rappresenta un elemento che potrebbe condizionare pesantemente l’andamento dei mercati finanziari futuri.

Qualora nei prossimi mesi si inasprissero le tensioni, in una fase così delicata la scelta vincente potrebbe essere una diversificazione che porti ad avere tra i propri asset titoli di aziende più difensive, come quelle che si rivolgono prevalentemente ad un mercato domestico e non internazionale.

Di converso, un’evoluzione positiva delle relazioni commerciali condurrebbe ad un vistoso recupero di tutte quelle attività che al momento sono rimaste penalizzate dalle tensioni in essere: il settore auto, ad esempio, potrebbe ricevere un’apprezzabile impulso positivo qualora si delineassero piani di accordo soddisfacenti per entrambe le sponde dell’Oceano.

Fare previsioni fai-da-te in questi casi può rivelarsi inefficace, se non addirittura controproducente. Ciò che nel medio periodo può ragionevolmente proteggere dall’evoluzione di situazioni così complesse e poco intelligibili, anche per le caratteristiche meno ortodosse di quest’ultima presidenza americana, è affidarsi a professionisti del settore che possano fornire approfondimento di analisi, elasticità di approccio, modulazione del rischio e soprattutto una diversificazione efficace dei temi di investimento.

Come sovente ci ricordano i guru dell’investimento (Warren Buffet in primis), in cinese la parola crisi è costituita da due ideogrammi che contemporaneamente significano minaccia e opportunità: una corretta diversificazione ci dovrebbe consentire di proteggerci dalla prima, permettendoci al contempo di beneficiare della seconda.

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