Articolo di Vittorio Pelligra, originariamente pubblicato su Ilsole24ore.com.
“Per quanto [l’uomo] possa esser supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l’altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla”. Abbiamo più volte ricordato questo importante passaggio de La Teoria dei Sentimenti Morali pubblicata da Adam Smith nel 1759. L’abbiamo fatto per sottolineare come anche colui che è convenzionalmente considerato il padre fondatore dell’economia moderna, con la sua La Ricchezza delle Nazioni, fosse convinto della naturale prosocialità degli esseri umani. L’interpretazione congiunta delle due opere principali di Smith, la prima più filosofica e la seconda economica, è sempre stata problematica.
Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo, per esempio, in Germania si sviluppò un importante dibattito intorno al cosiddetto Das Adam Smith Problem (il “problema Adam Smith”). Un dibattito sorto tra gli studiosi dell’epoca relativamente alla compatibilità delle concezioni della natura umana avanzate da Smith nelle due opere. Nella Teoria dei Sentimenti Morali Smith dedica, infatti, grande importanza al tema della sympathy mentre ne La Ricchezza delle Nazioni, il concetto principe è quello del self-interest, dell’interesse personale. Si ricorderà il famoso passaggio “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”. È interessante notare che Smith ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a rifinire e perfezionare la sua opera filosofica rinunciando, al contempo, a pubblicare una nuova edizione del suo trattato economico. Questo fatto non è irrilevante, soprattutto considerando che in ambito economico La Teoria dei Sentimenti Morali è stata messa in ombra da La Ricchezza delle Nazioni e quasi dimenticata. John Galbraith, per esempio, parla dell’opera filosofica di Smith come di “un’opera ora ampiamente dimenticata e in gran parte antecedente al suo interesse per l’economia politica”.
George Stigler, analogamente indica il concetto di “autointeresse” come “il gioiello della corona” dell’opera economica di Smith che “divenne, e rimane ancora oggi, il fondamento della teoria dell’allocazione delle risorse”. Questa sottovalutazione dell’opera filosofica del genio scozzese ha fatto in modo che il concetto di “autointeresse” venisse assunto all’interno della disciplina economica privato del tutto del suo contesto etico. Ma teorie che ignorano aspetti importanti del comportamento e che poi vanno ad informare pratiche organizzative e politiche pubbliche rischiano di portare alla distruzione di quegli stessi aspetti fondamentali e definitori del nostro essere “umani”. Quali sono, allora, questi “principi della nostra natura che ci inducono a interessarci alla sorte altrui e ci rendono necessaria l’altrui felicità” di cui parla Smith?
Abbiamo già discusso il tema dell’altruismo cosiddetto “puro” e di quello definito “impuro”. Abbiamo già visto come, comunemente, il destino degli altri non ci è affatto indifferente e come, potendolo fare con un costo non troppo elevato, siamo tutti, in genere, disposti ad aiutare gli altri non solo per il semplice piacere di constatare la loro felicità, come scrive Smith, ma, e questo è il punto dell’altruismo “impuro”, per il piacere di sapere che siamo stati noi, con una nostra libera scelta, benché costosa, ad esercitare un impatto positivo sul benessere di qualcun altro.
Questa capacità di non rimanere indifferenti al destino altrui è una delle caratteristiche che più ci rende autenticamente umani. E la condivisione del punto di vista dell’altro, delle sue sofferenze e difficoltà è la molla che ci spinge all’aiuto. Anche qui Smith sembra averci visto giusto. Il brano sulla felicità altrui che abbiamo citato in apertura, infatti, continua in questo modo “Attraverso l’immaginazione poniamo noi stessi nella sua situazione (…) e diventiamo in qualche misura la stessa persona e così ci formiamo un’idea delle sue sensazioni e anche sentiamo, anche se in misura minore, qualcosa di non dissimile da quello che sente lui”. Ecco la “simpatia” in azione. In quanto agenti individuali, sostiene Smith, non siamo in grado di avere esperienza diretta di ciò che gli altri provano e sentono, ma nondimeno abbiamo la capacità naturale di un “sentire comune”, che egli definisce fellow feelings, cioè a dire, la capacità di immaginare noi stessi come soggetti delle situazioni vissute dagli altri e in questo modo, indirettamente, provare le loro stesse sensazioni. “Simpatizzare” con qualcuno, nel senso smithiano, quindi, non vuol dire tanto immaginare cosa io proverei in una data situazione, quanto piuttosto cosa il soggetto con cui sto simpatizzando proverebbe in quella stessa situazione. L’estensione di tale facoltà immaginativa rappresenta la base della nostra capacità di autocoscienza, prodotta dalla nostra propensione a guardare noi stessi attraverso gli occhi degli altri.
Immaginate di aver sostituito all’interno di un tubetto di Smarties (ricordarsi cos’è rappresenta un test per l’età dei miei lettori) i confetti colorati con delle matite. Lo porgete ad una vostra amica e le chiedete se gradisce una caramella. Lei lo apre e dentro trova le matite. Non gradisce lo scherzo. Le proponete di rifare lo scherzo ad un terzo amico, ma prima di metterlo in atto le chiedete che cosa, secondo lei, si aspetterà di trovare nel tubetto il vostro terzo amico. Cosa pensate che risponderà? “Caramelle” con tutta probabilità. Ma come? Lei sa che dentro non ci sono caramelle, perché allora dovrebbe pensare che il vostro amico risponda “caramelle”? Perché il vostro amico non lo sa che dentro ci sono matite, solo voi lo sapete. Ecco, questo strano giochetto infantile è in realtà un test che si chiama “test delle false credenze del primo ordine” che gli psicologi dello sviluppo utilizzano per verificare il livello di maturazione di una competenza sociale importantissima definita “teoria della mente”.
Questa capacità inizia a svilupparsi abbastanza presto, dall’età di tre quattro anni, e matura fino all’età adulta. Cosa indica il fatto che nonostante sappiate che nel tubetto ci sono matite immaginate che il vostro amico risponda “caramelle”? Indica la capacità di guardare il mondo con gli occhi degli altri, quando questo è necessario. Di pensare ai pensieri degli altri e, così, poterne comprendere le credenze, i desideri, le intenzioni. Tutti elementi necessari per sviluppare significativi rapporti sociali. Fallire il “test delle false credenze” mette in luce un deficit importante nelle competenze sociali ed infatti si verifica, per esempio, con soggetti affetti da disturbi dello spettro autistico. Lo psicologo di Cambridge e autorità indiscussa degli studi sull’autismo, Simon Baron-Cohen, parla al riguardo di mind blindness, di cecità alla mente altrui, per riferirsi proprio all’incapacità ad accedere agli stati mentali altrui che caratterizza il disturbo dello spettro autistico e che, invece, in condizioni di sviluppo tipico, si osserva, come dicevamo, già in età precocissima.
Siamo esseri sociali e lo siamo principalmente perché siamo capaci di rispecchiarci negli altri, di creare uno spazio intersoggettivo condiviso dove il mio “io” in qualche modo sfuma e va a confondersi con il tuo “io”. È ciò che Vittorio Gallese, co-scopritore dei neuroni specchio assieme a Giacomo Rizzolatti, chiama shared manifold (sistema multiplo di condivisione). Un sistema che “rende possibile il riconoscimento degli altri umani come nostri simili, che promuove la comunicazione intersoggettiva, l’imitazione e l’attribuzione d’intenzioni agli altri”. Concentrandosi, invece, così pervicacemente, come abbiamo visto, sul concetto di self-interest l’approccio economico al comportamento umano ha perso tutta questa fondamentale dimensione “sociale” ed intersoggettiva. Da qui la fatica a comprendere tutti quei comportamenti pro-sociali che, o vengono ritenuti anomali, o vengono compressi, a volte, acrobaticamente, come tolemaici alle prese con epicicli e deferenti, dentro gli schemi angusti della scelta razionale autointeressata. Sorprende che questa a-socialità sia presente anche nell’ambito degli approcci più sociali della teoria economica come, per esempio, la teoria dei giochi dalla quale, in origine, ogni riferimento a concetti ed idee di natura psicologica erano stati scientemente espunti. Nella prospettiva dei suoi fondatori, John Von Neumann e Oskar Morgenstern, un dato corso d’azione può essere definito razionale se porta a minimizzare le perdite massime che un giocatore può ottenere, “indipendentemente” da quello che gli altri giocatori decideranno di fare.
Questa condizione di indipendenza, che sembra strano trovare proprio nel cuore di una teoria dell’interdipendenza strategica, deriva dal tentativo, che accomunava i due autori, di eliminare ogni riferimento di natura psicologica dalle assunzioni della loro teoria, e in particolare, come bene nota Nicola Giocoli, di liberare i giocatori “dalla necessità di formarsi aspettative circa le azioni e i pensieri dei rivali”. Una teoria del comportamento sociale che, paradossalmente, come fa notare un altro teorico dei giochi e premio Nobel, Thomas Schelling, per la quale un agente “non ha bisogno di comunicare con il suo avversario, non deve neanche sapere chi sia il suo avversario, ma neanche se un avversario realmente esista. (…) con il criterio del minimax – continua Schelling – un gioco è ridotto ad una situazione completamente unilaterale”. Una critica simile viene portata sempre da Schelling ad un altro concetto fondamentale della teoria, quello di “strategia mista”, che non è altro che: “un mezzo per distruggere deliberatamente ogni possibilità di comunicazione, specialmente di comunicazione delle intenzioni”.
Il progetto di John Nash, un altro padre fondatore della teoria e che si pone per molti versi in alternativa a quello di Von Neumann e Morgenstern, si fonda su un concetto di soluzione, l’“equilibrio di Nash”, appunto, decisamente differente dal “minimax”, anche se ancora chiuso al recepimento di una vera e propria “alterità”. Per Nash, infatti, un comportamento è razionale quando l’azione di un soggetto è una risposta ottimale ad ogni possibile risposta ottimale degli altri giocatori. Per poter pervenire alla scelta di tale comportamento, un giocatore deve preventivamente farsi un’idea circa quello che sarà il comportamento ottimale degli altri giocatori; deve quindi farsi un’idea circa i desideri e gli obiettivi che gli altri si prefiggono di raggiungere. L’elevata complessità di questo processo viene, però, risolta da Nash attraverso un’operazione fortemente riduzionistica, in virtù della quale si assume che le intenzioni degli altri giocatori si limitino al raggiungimento della massima utilità ottenibile. Per rendersi conto delle restrizioni imposte da questa operazione basti pensare che una delle sue implicazioni è che le credenze che due agenti possono formarsi circa il comportamento di un terzo agente devono necessariamente essere uguali. L’essenza della teoria dei giochi che Nash sviluppa è, nelle sue parole, l’assunzione secondo cui “ogni partecipante agisce indipendentemente senza nessuna forma di collaborazione o comunicazione con nessuno degli altri giocatori”.
Queste caratteristiche hanno fatto parlare del solipsismo della prospettiva di Nash, che qualcuno ha anche messo in relazione ai suoi problemi di schizofrenia. Un teorico dei giochi contemporaneo, Herbert Gintis, parla esplicitamente di “fallimento fondamentale” quando fa riferimento alla mancanza di una “teoria su come e quando gli agenti razionali condividono i costrutti mentali”. E continua “L’assunto che gli esseri umani siano razionali è un’eccellente prima approssimazione. Ma gli attori razionali considerati dalla teoria dei giochi contemporanea vivono in un universo di soggettività e invece di costruire una vera epistemologia sociale, i teorici dei giochi hanno sviluppato una varietà di sotterfugi per far sembrare che gli agenti razionali possano godere di una vera comunanza di credenze, ma sono tutti un fallimento”. In realtà, conclude Gintis “Gli esseri umani hanno una vera e propria epistemologia sociale, il che significa che abbiamo processi di ragionamento che ci offrono forme di conoscenza e comprensione, in particolare la comprensione e la condivisione del contenuto di altre menti, che non sono disponibili per le creature semplicemente ‘razionali’.
Questa epistemologia sociale è ciò che caratterizza la nostra specie. Per questo i veri limiti della ragione non hanno a che fare con la “razionalità” quanto con la “socialità”. Andare oltre l’Homo economicus, quindi, non significa tanto ammettere le peculiari forme di (ir)razionalità che caratterizzano l’Homo sapiens, quanto piuttosto la sua ontologica relazionalità, il suo essere “con” e “per” gli altri. Lo studio dei comportamenti pro-sociali anche in economia ha aperto interessantissime prospettive a questo riguardo, il mondo delle cosiddette preferenze sociali che stanno al centro dei più recenti sviluppi dell’economia comportamentale. Continueremo a parlarne diffusamente.