Dopo le turbolenze del 2018, che hanno indotto cali più o meno ampi nella maggior parte delle asset classes di investimento mondiali, il 2019 ha registrato una partenza al fulmicotone nei primi mesi dell’anno, mettendo a segno guadagni consistenti soprattutto sui listini azionari di tutto il mondo.
Non è facile comprendere le ragioni per cui in pochi mesi lo sguardo dell’investitore sia radicalmente mutato, soprattutto perché rimangono molte incertezze in merito a diverse tematiche.
Sul fronte Brexit, ad esempio, si è fatta largo l’ipotesi di un rinvio della scadenza dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, visto che entrambe le controparti ritengono eccessivamente azzardato divorziare senza un nuovo accordo di separazione. Al momento, prendere tempo sembra l’unica via percorribile, anche se è difficile pensare che pochi mesi possano permettere al Regno Unito di raggiungere un compromesso in un parlamento che appare più che mai frantumato.
Il tema Brexit pertanto sembra ancora lontanissimo da una soluzione, anche se il suo temporaneo congelamento non può che essere un sollievo per i mercati che, si sa, vivono di aspettative con un orizzonte temporale di pochi mesi, visto che le previsioni a lungo termine sono spesso decisamente aleatorie. Troppi sono i fattori imprevedibili che possono mutare lo scenario.
Un altro tema di incertezza riguarda la politica monetaria della banca centrale americana che, dopo un paio di comunicazioni contraddittorie da parte del governatore Powell verso la fine dello scorso anno, sembra ora indirizzata ad una saggia prudenza di analisi dei dati e del quadro economico statunitense, che dovrebbe condurre ad un progressivo esaurimento dei rialzi dei tassi già probabilmente nei prossimi mesi.
Se la Federal Reserve toglierà effettivamente il piede dall’acceleratore sulla politica monetaria rialzista, visto anche il sentiero di assoluta stabilità dei dati sull’inflazione che pare sotto controllo, questo non potrà che portare benefici diffusi sia ai mercati emergenti che alla stabilizzazione della crescita. Inoltre potrebbe portare anche ad un ridimensionamento della forza del dollaro, a beneficio di una generalizzata riduzione del peso del debito estero di molte economie dei paesi emergenti. Occorre ricordare a tale proposito che anche in passato, ed in particolare negli anni 1994-1995 e poi 2004-2005, la politica di normalizzazione dei tassi portata avanti dalla Fed non aveva pesato sull’espansione americana, che aveva proseguito il proprio ciclo di crescita ancora per 3-5 anni dopo l’esaurimento dei rialzi.
Fra i temi che potrebbero invece pesare sulla crescita statunitense non possiamo trascurare l’allentamento di tutti quei massicci stimoli fiscali inoculati nel tessuto economico americano dalle misure dell’amministrazione Trump; buona parte di questi incentivi verrà meno via via nel corso dell’anno togliendo probabilmente parte a quell’impulso che ha caratterizzato gli ultimi 18 mesi. Bisognerà dunque vedere in seguito quanti investimenti sono stati portati avanti dalle imprese, valutandone gli effetti positivi in termini di produttività solo nei trimestri a venire.
Passando all’Europa, molte sono le variabili di incertezza che potrebbero impattare sullo scenario: dall’esaurimento del QE, subito però rimpiazzato da Draghi con misure cuscinetto quali le tranches di finanziamento a lungo termine realizzate con il nuovo T-LTRO, alle elezioni europee del prossimo 23-26 maggio. Le elezioni rappresentano sempre un momento cruciale per l’Unione Europea e rappresentano un po’ un giudizio sul suo operato da parte dei cittadini europei. In quest’ottica il voto verrà anche letto in chiave di approvazione/disapprovazione di quanto portato avanti in questi anni in termini di politiche comunitarie. Maggiore sarà infatti il peso dei cosiddetti partiti euroscettici, maggiore sarà lo sforzo per comporre le divergenze. Guardando con occhi più ottimisti, questo potrebbe forse anche essere l’avvio di un’Europa meno rigida e severa e più attenta alle tematiche della crescita e dello sviluppo, soprattutto di fronte ai grandi giganti economici emergenti, quali le potenze asiatiche.
Sempre in Europa non possiamo prescindere dall’Italia che, a partire dal varo della nuova finanziaria, ha avuto momenti di contrasto anche accesi con la Commissione Europea, rischiando anche una procedura di infrazione per eccesso di debito. Anche questa tematica, dopo aver acceso i riflettori sul nostro Paese, pare temporaneamente in stand-by forse in conseguenza di un tema più grande che la ricomprende, ovvero le elezioni di maggio di cui abbiamo appena detto.
Restano inoltre sullo sfondo altri temi non meno importanti, tra i quali la diatriba sui dazi e il rallentamento dell’economia cinese e anche di quella europea; ricordiamo a questo proposito che le previsioni del FMI per la crescita 2019 sono rimaste buone per gli Stati Uniti (2,5%) ma in evidente calo per l’Eurozona (da 1,9% a 1,6%) in conseguenza soprattutto dell’attesa frenata italiana (0,6%) e tedesca (1,3%).
Forse però la domanda che resta latente in questo quadro particolare e complesso è quella relativa al ciclo espansivo dell’economia americana, uno dei più lunghi della storia U.S.A – 10 anni di crescita ininterrotta. Quanto potrà durare ancora, visto che tutti parlano da tempo di ciclo maturo? Un altro anno? Due? Tre? Ogni casa di investimento dice la sua; quello che al momento però è chiaro è che siamo di fronte a un lieve rallentamento, nulla di più di una pausa all’interno di una espansione prossima a diventare un record nella storia moderna, come emerge dal grafico riportato (fonte: www.ilsole24ore.com). Teniamo presente che i dati sono relativi a giugno 2018, perciò dobbiamo aggiungere almeno altri 6 mesi – quelli fino a fine 2018 – ai 108 mesi di espansione indicati, arrivando così a 114.
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